L’albero di Natale

n.1

Abete artificiale di prima classe. Acquistato da una decina d’anni e ancora in splendida forma. Ogni anno, tutti gli anni, mi tirano fuori dalla scatola l’8 dicembre, mi approntano diligentemente nell’angolo dello studio, quello dove c’è il computer, lo schermo grande della televisione, la biblioteca, il divano in pelle. La vestizione prende non più di una giornata. Mi addobbano sempre con i toni del rosso e del dorato. Qualche ghirlanda di lucine intermittenti, sostituite con puntualità non appena una lampadina guasta ne compromette l’effetto. Le decorazioni sono disposte sempre nello stesso modo, più in abbondanza sui lati in vista e rade su quello rivolto verso il muro. Lo stupore di chi entra nel salotto dura pochi minuti. Sono un albero di Natale ordinario. Acceso ogni giorno due ore prima di pranzo e due ore nel tardo pomeriggio, anche quando non ci sono ospiti. Prima, quando in casa circolava ancora qualche bambino, ombreggiavo un presepe, fatto con estrema cura. Era tradizione andare a prendere il muschio, grattandolo dalle cortecce con il coltello, per approntare la grotta e le montagne. Un fondo di bottiglia in plastica rivestito di carta d’alluminio faceva da laghetto per i cigni. Ora il presepe non c’è più, sostituito da una natività di cartapesta, talmente poco natalizia da essere lasciata sullo stesso tavolino tutto l’anno. Ai miei piedi, sempre meno regali, sostituiti da efficienti bonifici bancari alle figlie ormai fuori sede. Sparisco ogni anno il 7 gennaio, nel preciso rispetto del calendario. Mi ripongono nel cellophane e poi nella scatola. Nel salotto, resta solo qualche ago verde dimenticato sul pavimento. Come oggetti di poco valore scivolati dalle tasche di un passante disattento.

n.2

Mi hanno chiamato albero sospeso. Ma non cercate cime verdi, aghi di pino, ghirlande e fili di Natale. Non sono un albero, solo una serie di decorazioni acquistate distrattamente al supermercato e appese al soffitto. Di legno ci sono solo le travi a vista dove mi hanno appiccicato. Tra le palline di vetro anche una dove c’è scritto “Il mio primo Natale”. Qui in casa sono l’unico vestito a festa, insieme a un alberello di plastica messo sul frigorifero. L’unico segno delle vacanze imminenti. Il silenzio e l’indifferenza del resto dell’abitazione mi fanno sentire a disagio. Il Natale in casa non c’è e non ci sarà. La notte della vigilia, qualcuno ha accumulato i regali sul tavolo. Nessuno li ha aperti. Bambini troppo piccoli per aspettare con impazienza Babbo Natale, per godersi le mattinate lunghe, quando non si va a scuola e si resta ipnotizzati davanti alla televisione, con i programmi della mattina, mai visti primi. Adulti risucchiati dal lavoro nei ristoranti, dove il Natale è solo l’ennesima festività a cui sopravvivere. Per fortuna sono in alto. Posso vedere il Natale fuori dalla finestra. I turisti che si sbracciano anche sotto la pioggia e vanno a sbattere l’uno sull’altro per farsi una foto. Il signore delle crêpe che ha passato tutto la giornata in un cubo di un metro quadro, a guardare il telefono. Il negozietto di souvenir che s’è riempito di cappelli di Babbo Natale e lucine intermittenti. Il suono delle campane, dalla Basilica, la sera del ventiquattro dicembre. La pioggia sugli addobbi delle strade. Sono talmente invisibile che mi lasceranno qui tutto l’anno.

n.3

Anche quest’anno mi hanno messo nell’angolo del salotto. Accanto alla foto del padrone di casa, deceduto trent’anni fa, e il cero acceso sul centrino. Ma quest’anno è diverso. Questa volta, anche la padrona di casa è andata via. Morta in ospedale il primo giorno dell’anno. Un manipolo di ragazzotti vestiti di nero ha portato via tutto, ha fatto fuori il presepe, ricco di luci intermittenti e ceppi di legna rivestiti da carta roccia, per far posto alle sedie della camera ardente. Hanno coperto gli specchi. Hanno spento il camino. Hanno spostato, chissà dove, il grande tavolo in cristallo. Ma a nessuno è venuto in mente di portarmi via. Sono qui, in castigo in un angolo del salotto. Di fronte a me il quadro con le foto dei nipoti. In fondo posso vedere la punta della bara ricoperta da un lenzuolo bianco. Per il resto sono qui, sempre lo stesso da anni, ma questa volta spoglio, solo con un improvvido fiocco rosso in cima. Mi sento nudo, mi nascondo dietro i paltò venuti a rendere omaggio, dietro le parole a bassa voce, cerco di rendermi invisibile con il verde delle pareti. Mi sento osservato, come un attore distratto, che ha dimenticato di uscire di scena. Mi vergogno di essere qui. Una ragazzina mi ha fissato con gli occhi lucidi. Hanno pensato a tutto, tranne a me, e tra i tanti presenti, a nessuno è venuto in mente di ripormi, per i prossimi dodici mesi, o forse per sempre.

Images © Gustaf Fjæstad

Soundtrack: Fabrizio De André, Ave Maria

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Allegria di naufragi

Il giorno di Natale, dalla finestra sulla rue Norvins, le strade di Montmartre sembravano tornate a brulicare di turisti, degli acuti dei musicanti, delle offerte per un ritratto dal caricaturista di turno. Odore di crêpe, vino caldo, il riflesso delle luci blu tra gli alberi della Place du Tertre, un rumoroso gomitolo di strade nel quale non avevo voglia di tuffarmi. Ho riaperto vecchi libri, ritrovato appunti dimenticati, sono tornata a leggere la storia di un poeta che aveva voglia di dimenticarsi di sé, proprio il giorno di Natale, sentirsi sull’orlo di un allegro naufragio e, per un attimo, lasciarsi volutamente scivolare.

Il fiume Nilo lo ha visto “nascere e crescere e ardere d’inconsapevolezza”, in una bollente Alessandria d’Egitto di fine Ottocento dove, da genitori originari di Lucca, venne al mondo Giuseppe Ungaretti. Qui, ancor prima di scoprirsi ermetico e poeta, cominciò ad amare la lingua francese, che imparò nella scuola svizzera Jacot, e ad apprezzarne la poesia, che leggeva sulle pagine della celebre rivista Mércure de France, innamorandosi di Baudelaire, Rimbaud e Mallarmé.

Era il 1912 quando il profilo italiano gli passa davanti agli occhi, dietro il finestrino di un treno diretto a Parigi, dove Ungaretti decide di continuare gli studi, frequentando il Collège de France, le lezioni di Bergson ma soprattutto accomodandosi ai tavolini dei più illustri circoli letterari della capitale, dove conosce Soffici, Palazzeschi, Papini, Marinetti, il suo amico Apollinaire.  Alloggia in una camera d’albergo, al civico 5 di rue des Carmes, “appassito vicolo in discesa”, nel cuore del Quartiere Latino, dove condivide la stessa quotidianità, il medesimo sradicamento con Moammed Sceab, che morirà suicida, incapace di ritrovarsi nel fermento di Parigi.

trincea

La timidezza di Palazzeschi e lo charme di Apollinaire, grande estimatore di sigari toscani, lo conquistano più di tutti e si mescola in poche settimane alla folta schiera di habitué del Café de Flores, della Closerie des Lilas, una volta templi della cultura francese, oggi presi d’assalto dai turisti che ne hanno letto la storia sulle guide. Nel 1914, Ungaretti si arruola volontario per la Grande Guerra. Parte così per un viaggio dal quale non tornerà più, dove conoscerà la beffa del sentirsi vivo circondato dalla morte e dove concepirà il suo più famoso ossimoro, gli allegri naufragi.

Molte delle liriche raccolte ne Il Porto sepolto e in L’allegria sono state scritte in trincea, su pezzi di carta di fortuna, sugli involucri delle pallottole, riposti in fretta nel tascapane, nella giubba o nel berretto. Anche il tempo era scarso, in trincea, il linguaggio si doveva allora “rinnovare, rendere essenziale”, illuminarsi d’immenso e il senso stesso di quello stare lì, “come d’autunno sugli alberi le foglie”, si rinchiude nelle poche parole di un verso.

In trincea, Ungaretti modella la sua poesia, estremizza il verso libero, scopre l’analogia come via privilegiata all’intuizione poetica, all’illuminazione letteraria. Le sue figure retoriche sono ricercate epifanie linguistiche, alla base del suo personalissimo ermetismo, una poesia che si vuole erede dei segreti di Mallarmé e delle antiche primavere di Leopardi, rifiuta la facilità, la comprensione immediata, preferisce le vie traverse, le allusioni imprevedibili.

ungarettiponte

Ungaretti amava le difficoltà. “Se la poesia è decifrabile nel modo più elementare, non è più poesia”. La poesia deve contenere un non detto, anche se “si è sempre scontenti” e la parola, strumento impotente, riesce solo ad avvicinarsi, per lente approssimazioni, al mistero dell’uomo. Senza caricarla di artifici, di orpelli barocchi, la poesia è tale quando contiene “un segreto inesauribile”, quello di essere “semplicemente una parola molto amorevole rivolta alla persona che la ascolta per indurla a sentirsi più umana”.

Un’umanità che resta tuttavia immagine utopica, quando la stessa poesia diventa “esplorazione di un personale continente d’inferno”, ritornare sui propri passi senza trovarli più, cronaca di uno sradicamento e di un esilio interiore. “A ogni nuovo clima che incontro mi trovo languente”, scrive Ungaretti nella poesia Girovago “e me ne stacco sempre straniero”. A ogni partenza, un naufragio, più o meno allegro. A ogni addio, riprende il viaggio, il “superstite lupo di mare”.

Nelle dichiarazioni pubbliche più recenti, all’età di ottant’anni, amava annunciarsi come “l’antico Ungaretti” e leggere le sue ultime poesie, sebbene se ne rammaricasse un po’, perché queste facevano parte di un “ciclo segreto” che non avrebbe voluto rivelare ai microfoni della televisione. Molte delle sue interviste si trovano on-line, e la sera di Natale, alla fine, sul divano ho lasciato andare le parole di Ungaretti e mi sono addormentata anche io, naufragata in una voce familiare, “come una cosa posata in un angolo e dimenticata”, al sicuro, al caldo buono, “con le quattro capriole di fumo del focolare”.

Giuseppe Ungaretti scrittore

Giuseppe Ungaretti scrittore

Soundtrack: Ashes to Ashes, David Bowie