Se fosse stato il semplice resoconto di un viaggio, probabilmente 60 giorni, in 200 pagine, non sarebbero bastati. Ma il viaggio di Sarah Glidden, autrice di “Capire Israele in 60 giorni (e anche meno)”, scava in profondità, ritorna in superficie, plana su dubbi, convenzioni e preconcetti. A ogni passo, esercita il diritto al dubbio, il rifiuto della propaganda acritica, ma anche la messa in discussione dei suoi stessi pregiudizi contro un paese che tutti conoscono solo attraverso il filtro della stampa.
L’album, entrato direttamente nella classifica delle migliori 10 graphic novel del 2010 e pubblicato da Rizzoli Lizard nel 2011, è il primo libro di Glidden, classe 1980, ebrea americana di Brooklyn, e racconta la sua esperienza a ritroso nel tempo e nello spazio, alla ricerca delle proprie origini e della storia del suo popolo. A 26 anni, infatti, Sarah decide di partecipare al programma Taglit, una sorta di viaggio-studio, finanziato dagli ebrei di tutto il mondo, perché i più giovani possano visitare Israele e vedere da vicino le tappe del popolo eletto.
ISRAELE COME UNA CELEBRITY. Scegliendo di parlare in prima persona, come hanno fatto prima di lei grandi del fumetto autobiografico, da Marjane Satrapi a Joe Sacco fino ad Art Spiegelman, Glidden approccia la storia confrontando la versione israeliana della situazione al suo punto di vista personale, alle sue letture, rifiutando ogni sorta di propaganda e facile retorica. Ogni capitolo è introdotto da una mappa dell’area visitata e, a fine album, a completare le informazioni ci sono un piccolo glossario e una breve cronologia del conflitto israelo-palestinese, per decifrare più facilmente la storia del paese. Perché visitare Israele, scrive Sarah, “è come avvistare una celebrità in una strada affollata, qualcuno la cui vita folle ce la ritroviamo sempre sbattuta in prima pagina sui giornali, e poi alla fine è là, proprio di fronte a noi”.
LA SCONFITTA DEI BEDUINI. Il viaggio inizia dalle alture del Golan, il maestoso altopiano situato ai confini tra Giordania, Libano, Siria e Israele, tra i territori più contesi dell’area israeliana. La terra, vista fuori dal finestrino, appare come un piano susseguirsi di campi, tutti non edificabili per via delle centinaia di mine anti-uomo disperse. L’autobus trasporta il lettore di scoperta in scoperta, dal Lago di Tiberiade ai tanti kibbutz sperduti nelle campagne, dall’incontro con i soldati israeliani, giovanissimi e quasi inconsapevoli, al campo dei beduini nel deserto del Negev, nella parte meridionale dello stato d’Israele, una distesa di sabbia che occupa più della metà del paese stesso. Qui, la calma apparente delle dune dissimula una delle storie più tristi di Israele, quella dei beduini, la cui sconfitta, considerata ormai a livello internazionale come un fatto compiuto, non desta più interesse. Un tempo signori del deserto, dopo l’indipendenza di Israele, nel 1948, i beduini furono espulsi o confinati nel 2% del loro antico territorio, senza diritti sulla terra, acqua ed energia elettrica. Così oggi, per non soccombere alla miseria, guidano le caravane di turisti lungo i luoghi della loro sconfitta. “Per lo stato di Israele, siamo erbacce da sradicare”, conclude la guida.
QUELLO ZIO IMPAZZITO. “Ho sempre pensato di essere progressista, questo vorrebbe dire che sono anti-Israele”, rimugina Sarah, “ma sono ebrea, quindi dovrei sostenere il mio stato, invece sono pro-Palestina”. Lentamente, ogni convenzione sembra allentare le redini, ogni etichetta cancellarsi e svanire nel grande caos finale di Gerusalemme, della sua città vecchia dalle tre anime, cristiana, araba ed ebrea, dove i minareti si confondono con le stelle di David e le stazioni della via crucis, i bazar profumano di spezie e incenso sacro e i copricapi sono di tutte le forme e dimensioni. “Essere a Gerusalemme è un po’ come essere a New York o a Parigi”, ha dichiarato Glidden in un’intervista, “ci si sente al centro del mondo, si ha voglia di restare, inventarsi qualcosa per cambiare la realtà, ma sono fantasie un po’ ingenue, e anche un po’ egoiste”. Si finisce per non farsi più le stesse domande, per non cercare più risposte forse, per accettare le contraddizioni di un paese per quelle che sono. Come Sarah, che alla fine del viaggio, resta semplicemente a guardare. “Alcuni di noi vedono Israele come un povero zio impazzito… sul quale abbiamo ormai perso ogni controllo, ma del cui comportamento siamo in qualche modo responsabili, e rigettarlo pubblicamente sarebbe come sbandierare la vergogna della nostra famiglia”.
Qui la recensione pubblicata su OggiViaggi.