Parigi, Molitor: la piscina comunale diventa club privato

Chiusa per 25 anni, ha riaperto i battenti lunedì 19 maggio, in grande stile la piscina Molitor, luogo storico della città di Parigi, tra l’estasi collettiva, l’emozione soddisfatta del quartiere, ma soprattutto le accuse dei non pochi detrattori, davanti a questo nuovo imponente club privato d’élite, accessibile a pochi, l’ennesima porta che si chiude nella capitale.

Sì perché, lungi dall’essere la piscina comunale di un tempo, la piscina Molitor, situata nel ricco 16simoarrondissement, è oggi parte di un enorme complesso privato che include hotel a cinque stelle, ristorante e spa. Farsi un bagno è un lusso per pochi. L’accesso è, infatti, consentito solo ai clienti dell’hotel o ai fortunati membri di un club, la cui adesione annuale ammonta a 3300 euro, previa segnalazione da parte di un membro e diritto d’entrata di 1200 eurocela va sans dire. Per non peccare d’ingordigia, la struttura mette a disposizione tre striminzite mezze giornate a settimana, solo per i bambini, o meglio gli scolari, specificazione non irrilevante, del quartiere. Per tutti i comuni mortali, invece, un biglietto d’ingresso giornaliero è a 180 euro.

Il direttore del complesso, Vincent Mezard, appena trentenne, ha insistito perché la piscina conservasse l’aspetto dei suoi anni d’oro. Stessa sfumatura di giallo per le pareti, proprio come desiderava l’architetto che progettò l’edificio negli anni Venti, Lucien Pollet, i mosaici ristrutturati dallo stesso fabbricante che aveva fornito piastrelle e colori nel 1929, perfino le ringhiere sono le stesse. Chef del ristorante è Yannick Alléno, ex tre stelle nel celebre Meurice a Parigi, mentre la Spa è profumatamente, in tutti i sensi, firmata Clarins. Ultima immancabile precisione: per onorare il suo passato da tempio della street art, la nuova piscina Molitor, negli occhi sognanti di Mezard, si apre alla creazione contemporanea, ospitando mini-atelier d’artisti, dirette dall’Opera e sfilate di moda. Come a dire, ricchi sì ma pur sempre colti e raffinati. La terrazza, con vista sulla Tour Eiffel, il Bois de Boulogne e il campo del Roland Garros, è già tra i candidati ad essere “the place to be” per la jeunesse dorée parigina per l’estate imminente.E Mezard sembra incarnare perfettamente la filosofia della nuova piscina Molitor, aperta a tutti ma riservata a pochi.

Inaugurata nel 1929 dai campioni olimpici di nuoto Aileen Riggin e Johnny Weissmuller, la piscina diventa immediatamente un luogo di culto, centro dello sport cittadino e tempio della vita mondana nella capitale: party dorati, memorabili costumi da bagno, coppie celebri, la prima apparizione di un malizioso bikini, nel 1946, ma soprattutto una straordinaria cornice Art Déco, che ha reso sin da subito l’edificio un vero e proprio monumento storico. Piscina a vocazione democratica, come ogni stabilimento comunale che si rispetti, ogni inverno, fino alla fine degli anni ’70, l’immenso palazzo diventava pista di pattinaggio sul ghiaccio, aperta a tutti.

Chiusa nel 1989, la piscina finisce in mano ai writer, mutandosi, un murales dopo l’altro, nel cuore pulsante della street art a Parigi. Si mormora di un rave con circa 5000 persone, notti scatenate, ricordi di una Parigi che oggi sicuramente non esiste più, se non nei resti di murales, oggi conservati come cimeli all’interno del complesso. Le cose cominciano a cambiare già dopo il 2000, quando la piscina si lascia inevitabilmente influenzare dalla sua cornice, il quartiere più borghese della capitale, il 16simo per l’appunto, e anche le sue feste, per quanto pazze e alcolizzate, ma soprattutto gratuite, si fanno decisamente più esclusive. Si ricorda in particolare una serata Nike Sportswear Club, ben lontana dalle feste punk con cani al seguito di fine secolo.

Tutto finisce nel 2007, con la decisione dell’allora sindaco Bertrand Delanoë di voler restituire la piscina ai parigini e l’appello della Città di Parigi a capitali privati per finanziare la ristrutturazione del complesso. Vince l’appalto Colony Capital, che finanzia i lavori per circa due anni e mezzo, con la collaborazione di Bouygues e Accor, investendo 80 milioni di euro. L’ex ministro della Cultura francese Jack Lang si rammarica della distruzione dello spirito di Molitor: “E’ stata una buona idea fare appello a capitali privati, ma la piscina sarebbe dovuta restare un luogo accessibile a tutti”. Da qui il silenzio, che fa non poco rumore, da parte del nuovo sindaco, la socialista Anne Hidalgo, che, purtroppo, forse arrivata troppo tardi, anche animata da buona volontà non potrebbe fare granché. Oggi, la città di Parigi resta proprietaria del terreno ma ufficialmente è Colony Capital a detenere il monopolio del complesso, in virtù di un contratto d’affitto della durata di  54 anni, firmato nel 2008.

La piscina Molitor diventa quindi uno stabilimento privato, l’ultima conquista di pochi oligarchi a danno della collettività, ma soprattutto un simbolo più che eloquente della lenta ma inesorabile trasformazione della capitale francese in un paradiso esclusivo, spaventosamente noioso, solo per ricchi.

Qui, l’articolo pubblicato su FQParigi, il blog dalla capitale francese de Il Fatto Quotidiano.

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Paris Bashing: la stampa straniera e la capitale

John Laughland, sul The Spectator, scrive che vivere a Parigi significa “essere prigioniero di un Tupperware: il cielo grigio è più immobile di quello di Londra”. Stephen Clarke, del Daily Telegraph, scorge nella Tour Montparnasse “un simbolo dell’insoddisfazione della città, votata a una logica di auto-distruzione permanente”. Per non pochi corrispondenti stranieri, la capitale francese non è più la festa mobile descritta da Hemingway (lo è mai stata?), ma un ghetto dorato, fiaccata da numerosi problemi sociali e finanziari e attraversata da orde di hipster, sempre più borghesi e sempre meno bohémien. Dopo il “French Bashing”, il nuovo sport preferito dai giornalisti anglosassoni, che non esitano a ferire di penna l’orgoglio gallico, sembra che la stampa internazionale si sia consacrata al “Paris Bashing“, denunciando miti e illusioni della città più bella del mondo.

“Tutti cercano di creare la propria Parigi, carnale e spirituale”, scrive Steven Erlanger, corrispondente del New York Times, residente nella capitale francese per 5 anni, “ma vivere e lavorare in una città obbliga ad amarla diversamente, con molta più forza di volontà e meno passione”. Dal suo canto del cigno, viene fuori un ritratto amaro e lucido della Parigi contemporanea, “un’isola fortunata, chiusa e borghese, circondata da una strada circolare – il boulevard périphérique – una sorta di muro di Berlino, il muro di un ghetto”. Il basolato dei vicoli di Saint-Michel, l’illuminazione di Notre-Dame al calar del sole, la distesa della Senna e quella più placida del Canal Saint-Martin valgono ancora i pomeriggi di flânerie ma Parigi sembra quasi aver perso il suo charme da capitale europea: “è una città di ricchi, appagati, soprattutto bianchi, e di piaceri prudenti: musei, ristoranti, opera, balletto e piste ciclabili”.

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Intrappolata tra i cliché e la realtà quotidiana, Parigi sembra aver smarrito se stessa. Non a caso, infatti, assiste quasi inerme all’esplosione del feroce dibattito sull’identità francese. Simon Kuper, giornalista britannico del Financial Times, di casa a Parigi dal 2002, ne è convinto: “sotto una facciata snob e ostile, Parigi è una città snob e ostile”. E, per spiegarne le ragioni, ritorna al 1789. “La gran parte della maleducazione dei francesi nasce con la presa della Bastiglia e con lo slogan Liberté, Egalité, Fraternité”. Secondo Kuper, messa da parte la “fraternité”, i francesi hanno sviluppato un culto originale della libertà che, per molti, si traduce in un atteggiamento senza scrupoli, una lingua raramente tenuta a freno e nessuna traccia di amabilità, per paura che il prossimo possa scorgervi un atto di sottomissione. Il sovraffollamento della città (con una superficie di poco più di 105 chilometri quadrati e una popolazione che supera abbondantemente i 2 milioni, Parigi ha una densità abitativa tra le più alte al mondo) e il cielo plumbeo hanno fatto il resto. Ma non solo. Parigi sarebbe volgare, lo ha detto anche Scarlett Johannson, da poco arrivata nella capitale, per via della sua stessa perfezione: “Immaginate una capitale intellettuale su una capitale dell’arte e della moda, in un’antica capitale reale e il tutto in un paese che ha inventato le arti e la cucina e otterrete una quantità di comportamenti codificati tale che nessun dominio sfugge ormai alle esigenze della sofisticazione”. Una girandola di asfissianti buone maniere alla quale non resta che adattarsi, in un tentativo che, spesso, dura tutta la vita.

Gabriela Wiener, giornalista peruviana, scrive “un nuovo spettro si aggira per l’Europa, quello della guerra fredda tra hipster bio socialisti e liberali chic”, e Parigi ha tutta l’aria di esserne il campo di battaglia: una città, emblema della libertà, “dove è impossibile trovare un alloggio a meno di 1200 euro (e un croissant per meno di 3) e i pic-nic nel giardino delle Tuileries sembrano pubblicità di Chanel, Louis Vuitton o Gucci, o tutte e tre insieme”. La pensa allo stesso modo Thomas Chatterton Williams, del New York Times, che ha assistito dalla sua finestra alla lenta trasformazione di Pigalle in SoPi (abbreviazione alla newyorchese di South Pigalle) per via del dilagante gusto hipster, sempre più affamato di hot dog, tacos, avena, kale frittata e brunch bio. Parigi cambia e, in barba al barone Haussmann e alla prospettiva dei suoi edifici, sembra voler “organizzare il proprio spazio urbano come un blog di moda o una pagina di Pinterest, che rappresenti l’espressione unica, appagata ed estremamente protetta della classe media superiore”.

Forse è tutta colpa di Hemingway. Della sua Parigi che, secondo Christopher Hitchens, è stata l’origine dell’ossessione degli americani per la Ville Lumière, inevitabilmente delusa davanti alla realtà. Ma se è vero che Parigi non finisce mai, è vero anche che “Parigi non è più quello che era”, come scrive John Simpson, del Daily Telegraph, “ma questo succede ovunque e Parigi, almeno, resta quella che noi abbiamo sempre desiderato che sia”.

Qui l’articolo pubblicato su FQParigi, il blog parigino de Il Fatto Quotidiano.

Francia e omofobia: ritorno al passato

L’ultimo fine-settimana, a Parigi, due manifestazioni hanno attraversato la città. Le prime bandiere si sono levate sabato 1° febbraio, nei dintorni di Place Joffre, nel settimo arrondissement, dirette verso l’ambasciata spagnola, in segno di protesta contro il progetto di legge del governo Rajoy che  fa dell’aborto un reato depenalizzato, giustificabile solo in caso di pericolo per la salute fisica e psicologica della donna o se questa è stata vittima di stupro, precedentemente denunciato. In tanti hanno raccolto l’invito a manifestare il proprio dissenso, dai socialisti ai comunisti, uniti per difendere la libertà delle donne, in Spagna e nel mondo.

La risposta, tuttavia, non s’è fatta attendere. Solo il giorno dopo, domenica 2, Parigi è stata invasa dalla furia reazionaria della Manif pour tous (Manifestazione per tutti), inevitabile sfogo di collera e tensione di una settimana travagliata in Francia. Tutto, infatti, è cominciato circa dieci giorni fa, quando i tranquilli focolari francesi sono stati turbati da un sms anonimo, che informava padri e madri di famiglie timorati di Dio che la scuola avrebbe cominciato a insegnare ai loro bambini la fantomatica “teoria del genere”, ma non solo. Sarebbero seguiti accenni alla natura omosessuale e alla pratica della masturbazione. Conseguenza di tale allerta, una giornata, lunedì 27 gennaio, in cui i bambini sono rimasti a casa, al sicuro da ogni eventuale “vague” di liberalismo scolastico. Decine di migliaia di persone, armate delle bandiere rosa e blu, colori ormai tristemente associati all’omofobia qui in Francia, hanno sfilato quindi domenica tra Champ-de-Mars e Denfert-Rochereau, trascinandosi dietro i propri figli, che, intervistati, sapevano ben poco delle ragioni della marcia, e protestando contro la riforma della famiglia del ministro Taubira, la maternità surrogata, la procreazione assistita per le coppie lesbiche, la sedicente “lobby” Lgbt e, soprattutto, l’insegnamento dell’uguaglianza dei sessi a scuola.

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Ludovine de la Rochère, presidente dell’associazione Manif pour tous, insorge contro “l’Abc dell’uguaglianza”, una sorta di manuale proposto dal Ministero dell’Educazione francese, che dovrebbe aiutare a dissipare gli stereotipi maschili e femminili sin dalla più tenera età. Frainteso dai manifestanti, il libello è ormai il simbolo di un governo che s’impegna, secondo la Rochère, a “diluire il legame tra padre-madre-bambino e contrastare l’alterità tra uomo e donna”. A galvanizzare le ire dei cattolici integralisti, anche un manipolo di francesi musulmani, muniti di striscioni, a gridare il loro “no” al matrimonio omosessuale. “Un bene che siano venuti anche loro”, ha riportato il sito Rue89, che ha intervistato i manifestanti, “noi cattolici siamo troppo tranquilli”.

Un identico corteo ha dato il meglio di sé domenica 26 gennaio, per il cosiddetto “Jour de colère”, letteralmente “Giorno di collera”, un vero e proprio Dies Irae che ha ben poco dell’armonia della composizione mozartiana. Riuniti per l’amore della Francia e del bene comune, con il pretesto della ormai trasfigurata libertà d’espressione, armati di improbabili cornamuse e striscioni con “Liberté, Egalité, Dieudonné“, c’erano anti-semiti, omofobi, partigiani della cosiddetta “Primavera francese”, mai così grigia come quest’anno, a levare il dito medio, e non solo metaforicamente, contro ilgoverno Hollande, che favorisce emigrazione, omosessualità e non si preoccupa dei suoi francesi purosangue, afflitti dalla disoccupazione (ma con un sussidio non poco rilevante che arriva puntuale sui conti in banca ogni mese).

Un brivido di esultanza avrà sicuramente percorso la schiena dei circa 100.000 manifestanti che hanno sfilato per la Francia il 2 febbraio, quando il primo ministro Jean-Marc Ayrault ha dichiarato che la temuta riforma sulla famiglia è annullata, almeno fino al 2015. L’ennesima conferma della debolezza della sinistra francese, esitante e succube dell’integralismo del popolo.

La storica e tradizionale libertà francese s’è ormai svuotata di significato. La stessa parola “genere” ormai provoca sussulti e subisce la censura ufficiale del governo, che non ha esitato a sospendere unciclo di conferenze universitarie sul tema, bloccare la pubblicazione di un libro intitolato “Déjouer le genre” e sostituire il termine incriminato con il più cauto binomio “garçon-filles”, “ragazzi-ragazze“. L’uguaglianza s’è ormai dissolta con la benedizione del genio d’oro della Bastiglia, tappa obbligata di ogni manifestazione che si rispetti. E la fraternità, ahimè, non si vede più, almeno dai primi scontri in banlieue, una decina d’anni fa. Paese rivoluzionario per eccellenza, la Francia sembra essere scivolata nel più squallido furore reazionario.

Fieri del loro successo, e dell’ovvia impressionante copertura mediatica, i manifestanti della domenica saranno tornati soddisfatti e gonfi d’amor patrio ai loro sacri talami. Probabilmente prendendo la metropolitana, che ormai da settimane è tappezzata di pubblicità di siti d’incontri on-line per coppie annoiate e alla ricerca di una piccola fuga extra-matrimoniale, ultime vestigia del libertinismo francese, unico segno tangibile dell’emancipazione sessuale, misera illusione della più infima delle libertà.

 

Qui l’articolo pubblicato su FQParigi, il blog parigino de Il Fatto Quotidiano.